La storia di Carfizzi
L’antico e piccolo casale
di “Sancta Venere” è documentato già all’inizio della
dominazione angioina. Popolato da circa 150 abitanti,
esso fa parte del Giustizierato di Valle di Crati e Terra Giordana1 e fu concesso a diversi
feudatari assieme al vicino casale di Lu Trivio.
Dapprima nel 1284 ,al tempo di Carlo I d’Angiò, lo
ebbe in feudo al cavaliere Petro de Fouilleuse, o Folioso, alla sua morte ricadde in Regia Curia2
e quindi ne fu investito il milite Andrea de Pratis3. In seguito nel
1331 Roberto de Pratis godette della concessione
annua di 12 once sui due casali di Lutrivio e S.
Venere.
Origine di Carfizzi
Situato vicino a Melissa
ed a Ipsigrò, il feudo nel Quattrocento appartenne
dapprima a Gioannotto e poi ad Enrico Morano. Sul
finire di quel secolo avvenne un ripopolamento con gente albanese. All’inizio
del Cinquecento, nel 1507, il feudo di Sancta Venere
veniva confermato dal re Cattolico a Luca Antonio Morano di Catanzaro, il quale
lo possedeva con i territori di Trivio, Carfide e
Crisma4. Da allora Carfide o Salfice, detto anche Crisma Scalfizzi
o Scalfize, comparirà sempre nelle numerazioni dei
fuochi. Anche se dalle tassazioni esso nella prima metà del Cinquecento
risulterà abitato da una ottantina di Albanesi e del doppio nella seconda metà,
tuttavia la popolazione, che viveva in "pagliari",
era senz’altro di molto superiore. Sappiamo che all’avvicinarsi dei contatori
regi gli Albanesi disfacevano parte delle loro povere abitazioni di paglia, per
sfuggire al fisco regio. Avvenuta la numerazione, essi di nuovo le
ricostruivano5.
I feudatari
Per tutto il Cinquecento
e fino quasi alla metà del Seicento il feudo di Carfidi
rimase in potere dei Morano, baroni di Cotronei.
Morto Lucantonio Morano, passò al figlio Giovanfrancesco
il quale nel 1563 lo cedette a G. Filippo Badolato da
Cosenza. Per poco, Fabrizio Morano nel 1576 ne rientrava in possesso,
rivendicandolo da Francesco Badolato, e lo manteneva
fino alla morte avvenuta nel 1585. Seguì la sorella Aurea Morano (1588 –1630)
che sposò il barone di Sellia Orazio Sersale. Seguì il duca di Belcastro
Orazio Sersale juniore, il
quale nel 1648 alienò Scarfizzi a Valerio de Filippis. Seguì il figlio Gio.
Nicola Giuseppe de Filippis che sposò l'aristocratica
crotonese Antonia Suriano6,
figlia di Diego, feudatario di Apriglianello. La
figlia Innocenza de Filippis, sposata con Antonio Sambiasi, nel 1687 fu costretta a causa dei debiti ad
alienare il feudo di Carfizzi per 31000 ducati a Scipione Pisciotta
juniore. Il feudo di Carfizzi passò poi al duca di Belcastro Fabio Caracciolo, che
lo tenne un solo anno (1696),e quindi al patrizio napoletano Scipione Moccia, che nel 1697 acquistò Carfizzi dal Caracciolo per ducati 31800. Scipione Moccia
fu duca di Carfizzi e marchese di Casabona. Seguì il
figlio Domenico Moccia (1708 –1719) e poi il fratello
Pietro Moccia. Antonia Moccia, sorella di Pietro, sposò uno di casa Crispano; il figlio Carlo Crispano
nel 1760 si intestò la terra di Carfizzi e nel 1766 la alienò per ducati 52000 a Nicola Malena,
al quale seguì il figlio Nilo7. I Malena
col titolo di marchesi di Carfizzi ottenuto nel 1768, lo mantennero fino
all’eversione della feudalità.
La chiesa di S. Venere
Le prime notizie sulla
sua chiesa ce le fornisce il vescovo di Umbriatico
Alessandro Filaretto Lucullo
(1592 –1606), il quale in una relazione del 1598 afferma: "Per quanto
riguarda i curati dei Greci o Albanesi, come ci è stato ingiunto e comandato da
voi reverendissimi padri che non permettessimo per l'avvenire un amovibile,
abbiamo provveduto per editto che gli stessi Albanesi laici fondassero un
beneficio a favore dei curati, affinché non ci fossero più stipendiati annuali
come per il passato, come erano gli stipendiati "ad libitum",
che erano soggetti alla possibilità di essere confermati o cacciati.
L'abitazione di questa gente nella nostra diocesi è particolarmente mutabile,
in quanto si trasferiscono spesso da una località all'altra. Eccetto i beni
mobili che a volte possiedono, lavorando nelle terre degli altri, niente altro
hanno, nemmeno le abitazioni, in quanto vivono in case fatte di paglia. Solo la
cappella, dove ricevono i sacramenti ed ascoltano le funzioni religiose è
costruita con pareti di fabbrica. Per tale motivo non hanno potuto costituire
qualcosa di duraturo per la dote della stessa cappella, ma solamente tutti
assieme hanno offerto come dotazione una determinata quantità di frumento e di
orzo, sufficiente a condurre una vita decente, per il mantenimento del
sacerdote curato. In tal modo i curati istituiti con spedizione di bolle non
possono essere rimossi o mandati via. Poiché nei casali dei Greci, o Albanesi,
vi abitavano alcuni latini, i quali presumibilmente non seguivano né il rito
latino né quella greco, fui costretto ad inibire a costoro la permanenza e la
residenza oltre gli otto giorni"8. Due anni dopo lo stesso
vescovo così descrive il casale: “ E’ abitato da Albanesi, i quali seguono il
rito greco. Vi è un prete greco coniugato con il suo coadiutore pure coniugato.
Ha la chiesa sotto l’invocazione di S. Venere, che non gode rendite certe ma
solamente decime personali. Vi abitano circa 400 abitanti. Il sindaco e gli
eletti dell'università hanno convenuto di corrispondere al prete greco curato
un certo stipendio. Ma questo stipendio non è permesso, in quanto si aspetta
una decisione da Roma"9.
Da alcuni documenti
sappiamo che la questione relativa al fatto di istituire parroci curati
perpetui con una dotazione sufficiente e certa fu risolta con un accordo tra il
vescovo di Umbriatico e l'università di Carfizzi.
Quest'ultima avrebbe presentato il candidato che il vescovo avrebbe consacrato.
Per tale motivo eserciteranno di solito la carica di parroco greco, preti dello
stesso casale, previa autorizzazione del vescovo di Umbriatico
ed assenso papale. Infatti nell’aprile 1612 Paolo V convalidava la concessione
della cappellania di S. Venere del casale di
“Carfici Graecorum”,
alla quale era assegnata la cura delle anime nella chiesa parrocchiale, solita
ad essere retta da un cappellano perpetuo, il cui frutto era di 24 ducati,
rimasta vacante per morte di Demetrio Transaza (?),
avvenuta nell’agosto 1610, a Francesco Musca, prete
greco del luogo ed economo della stessa chiesa, approvato dall’autorità del
vescovo10. Seguiranno i parroci Quinto Varizza,
il successore Gio. Francesco Mezza (1626 –1658) e
Luca Antonio Birchi (1659 - ?)11.
Il rito greco
La chiesa parrocchiale di
S. Venere rimase sotto la cura di preti greci per tutta la prima metà del
Seicento.
Il vescovo Pietro Bastone
(1611- 1621) nella relazione del 1618 richiamava l'attenzione sul fatto che
nella sua diocesi vi erano due villaggi albanesi, cioè S. Nicola dell'Alto e
Carfizzi, i quali con i loro preti seguivano il rito greco. Faceva però
presente che tra loro abitavano anche alcuni latini e diversi altri. Costoro,
sia perché avevano abbandonato luoghi nei quali si seguiva il rito latino e
dove essi a lungo avevano vissuto, sia perché erano nati da genitori che
conservavano il rito greco, attualmente si trovavano domiciliati in questi
luoghi e non seguivano né il rito latino né quello greco12.
Il successore Benedetto Vaez (1622-1631) osservava che i parroci greci prima di
accedere agli ordini sacri prendevano con sé una moglie, unica e vergine, e
divenuti sacerdoti la mantenevano. Preparavano il sacramento della SS. Eucarestia con pane fermentato e compievano le altre
funzioni e cerimonie religiose secondo il rito orientale13.
Durante il vescovato di
Antonio Ricciulli (1632 – 1638) il rito greco era
ancora vitale. Il vescovo, richiamato a Napoli nel maggio 1633 per esercitare
l'ufficio di ministro generale della inquisizione, cercò di regolare i rapporti
tra i suoi diocesani di rito greco e di rito latino, che promiscuamente
vivevano nella sua diocesi. La chiesa aveva fonte battesimale, un solo parroco,
un chierico e due diaconi. La popolazione ascendeva a circa 320 abitanti14.
Dal rito greco al latino
Il cambiamento di rito ed
il tentativo di latinizzare il nome della parrocchiale avverranno durante il
vescovato del catanzarese Vitaliano Marescano (1661-
1667): Il villaggio di Carfizzi è abitato similmente da Greci aventi un proprio
principe ed un proprio parroco arciprete latino, che presiede all’unica chiesa
matrice e parrocchiale sotto il titolo di S. Veneranda. Enumera cinquecento
anime, che osservano il rito latino. Ci sono due preti semplici, quattro
chierici ed alcuni fanciulli alquanto digiuni di lettere, che abitano presso
l’arciprete per apprendere la dottrina15. Il seguente Agostino de Angelis (1667 – 1681) affermava che gli abitanti, originari
dell’Albania, ormai seguivano tutti il rito latino, avendo abbandonato
completamente il greco. Nel paese c'erano due chiese: la parrocchiale di S.
Venere e quella di S. Antonio da Padova e due preti e due chierici. Era
feudatario il barone Valerio de Filippis, uomo pio,
giusto e generoso16. Lo stesso vescovo, nella relazione del 1672,
aggiungeva che due anni prima nella chiesa matrice di S. Veneranda era stata
introdotta la recita del SS. Rosario, in un proprio altare edificato e curato
da Pietro Bisulca, un devoto che abitava nel casale, ed era stata anche
costruita di recente una nuova chiesa dedicata a S. Antonio da Padova a spese
di Giovanni Maria Basta17. Tra il 1672 ed il 1678 alle due chiese,
quella parrocchiale, che il vescovo ha ora intitolato a S. Domenica Vergine, e
l’altra di S. Antonio da Padova, se ne aggiunge una terza sotto il titolo
dell’Immacolata Concezione, costruita a spese di un pio cittadino18.
La parrocchiale manterrà il suo nuovo titolo anche all’inizio del vescovato di Gio. Battista Ponzo (1682 –1689), quando nel casale ci sono
tre o quattro preti ed altrettanti chierici19.
Il Settecento
All’inizio del Settecento
in “Terra Carfitium” le tre chiese, sia la
parrocchiale di S. Veneranda, nella quale si conserva il SS.mo
Sacramento e vi è la fonte battesimale ed il sacrario, sia le due chiesette
dedicate a S. Antonio da Padova ed alla SS. Concezione, sono elegantemente
ornate20. All’aumento della popolazione, che in pochi anni passa dai
19 fuochi della fine del Seicento agli 80 del 173221, fa riscontro
quello dei sacerdoti, che da due salgono a cinque22; essi tuttavia,
come anche la popolazione, vivono in condizione di grande povertà23.
Le rendite sono così
tenui che il vescovo riduce all'arciprete la quarta parrocchiale da quindici a
dieci tomoli di grano, in considerazione "d'essere tenuissime l'offerte
della chiesa per l'arciprete"24.
Nonostante che la
popolazione abbia già da molti anni formalmente abbandonato il rito greco,
tuttavia persiste l'attaccamento alle antiche reliquie; soprattutto alle icone.
Di tale religiosità popolare ne è testimonianza un fatto accaduto al giovane
duca di Verzino Nicolò Cortese, il quale tentò di
asportare dal paese un'immagine sacra, suscitando una sommossa popolare.
Rifugiatosi nella casa della famiglia Basta, il duca dovette ben presto cedere
in quanto gli abitanti la circondarono con fascine, minacciando di darla alle
fiamme. La protesta cessò quando il duca uscì, consegnando l'icona25.
Così descrive Carfizzi il
vescovo Zaccaria Coccopalmeri (1779 -1784): "E'
costruito sopra un monte. Ha la chiesa parrocchiale sovrastante il luogo e
situata in un arioso piano con le case degli abitanti intorno ai lati. Si
estende da questo luogo verso una valle inaccessibile, molto estesa e non
breve, ai cui lati, di qua e di là , in longitudine sono costruite le case
degli abitanti, in modo tale che chi vi abita, da qui non può passare, ma deve
ritornare al pianoro di sopra, cioè davanti alla chiesa. E' bello vedere, non
una ma una triplice città sotto il dominio del regio consigliere Nilo Malena, il cui fratello Vincenzo esercita l'amministrazione
immediata e proficua degli abitanti. La chiesa matrice, ossia battesimale, è
consacrata a Santa Veneranda Vergine e Martire, patrona del luogo. Essa non è
di brutta struttura; è simmetrica con una nave divisa in tre parti e con gli
altari convenientemente disposti ed ornati. Nell'altare maggiore è conservato
il SS. Sacramento. Per quanto riguarda l'amministrazione temporale essa è
gestita dal procuratore laico nominato dai cittadini. Ottenni dal suo zelo e
dalla sua religiosità che il coro fosse restaurato in forma migliore e che
fosse riparato il sottotetto della nave sinistra e mi fu promesso che
similmente sarebbe stata ornata e riparata quella di destra. Trovai l'insigne
reliquia della martire conservata dentro un ostensorio, rifinito d'oro e che
mostra una certa eleganza. Vidi tuttavia che il luogo, dove era conservato, non
era decente. Chiesi ed ottenni da un sacerdote del luogo che fosse costruito un
piccolo e grazioso armadio di legno, dipinto con vari colori. Esso fu posto sul
piano dell'altare della Patrona e mi adoperai affinché fosse ben munito. In
esso riposi l'insigne e sacra reliquia della santa, chiusa con serrature a due
chiavi, che furono consegnate in custodia una all'arciprete e l'altra al
sindaco del luogo. Per accrescere il culto e la gloria della santa patrona
stabilii nei decreti della prima visita che la sacra reliquia fosse esposta e
poi riposta alla venerazione dei fedeli dall'arciprete, vestito con la stola
bianca e che il clero dovesse assistere con i ceri accesi e recitando sacre preghiere alla Vergine e
Martire" . Lo stesso vescovo Coccopalmeri notò
un certo distacco di parte della popolazione dalle funzioni religiose. Le donne
partecipavano numerose ma gli uomini se ne stavano oziosi nella piazza. Egli
introdusse il culto di S. Panfilo, vescovo e patrono di Sulmona, facendo
erigere nella chiesa un altare con l'immagine del santo protettore. A tale
scopo utilizzò le elemosine dei cittadini che parte raccolse personalmente e
parte fece raccogliere dai sacerdoti del luogo. L'icona del santo fu poi benedetta
solennemente in presenza del popolo, che egli fece congregare in chiesa.
Durante la cerimonia fu esposta alla venerazione dei fedeli la reliquia del
santo, che il vescovo portava sempre con sé. Per incrementare il culto diede la
facoltà ai fedeli di celebrare solennemente ogni anno la festa di S. Panfilo,
come prescritta dal romano martyrologio nel giorno
del 28 aprile. Il culto così si propagò non solo a Carfizzi ma in tutta la
diocesi. Sempre sul finire del Settecento la cura delle anime è retta dall'arciprete,
al quale a titolo di congrua sono versate le decime frumentarie dai laici. Vi
erano al servizio della chiesa cinque sacerdoti del luogo e un chierico. Fuori
del paese c'era la chiesa della SS. Concezione, decentemente costruita ed
ornata. Essa era carente di entrate e si reggeva sulla pietà dei cittadini. Vi
si celebrava solennemente ogni anno nel giorno otto dicembre festa della
Vergine con grande concorso popolare. Ai piedi del paese vi era la chiesa dedicata a Sant'Antonio da Padova, che godeva anch'essa di poche
entrate. Era retta ed amministrata dal magnifico Sabbatino Macrì,
cittadino sub giudice laico. Per il iuspatronato di
tale chiesa era sorta una lite tra due famiglie del luogo. Il sacerdote
Vincenzo Macri aveva l'onere di far celebrare ogni
anno da un procuratore cinquanta messe. Il 13 giugno, giorno della festa il
clero vi celebrava solennemente. La chiesa e la sacrestia erano mediocremente
provvedute26.
Alla fine del Settecento
Carfizzi, terra in diocesi d'Umbriatico, marchesato
di casa Malena, d'aria buona27, conservava
ancora le tre chiese la parrocchiale di Santa Veneranda e le due chiese rurali
della Concezione e di S. Antonio da Padova, che erano decentemente ornate. Il
parroco che prima viveva con le decime, ora viveva con il contributo del
patrimonio comune. Gli abitanti erano circa settecento28.
Note
1.
Nel 1276 Lucrivium (Lutrivium) cum Sancta Venere è tassato per
once 3, tari 20 e grana 8, Minieri Riccio C., Notizie storiche cit., p. 215.
2.
Nel 1291
Carlo II d’Angiò concedeva a Giovanni Vigerio, sposato con Beatrice, figlia di Giordano di Santo
Felice, per i servizi resi al padre ed a lui, una annua provvigione di 32 once
d’oro sui beni che il defunto milite Petro Folioso
aveva ottenuto dalla Curia. I feudi consistevano nei casali di Torlocio, San Leone, Lutrivio e Sancta Venere, Reg. Ang. Vol. XL (1291-1292), pp.
23-24.
3.
Nel 1292 i
casali di Lutrivio e di Sancta
Venere sono concessi al milite Andrea de Pratis, per
i servizi da lui resi al re Carlo I, Reg. Ang. Vol. XXXIX, p. 54.
4.
Zangari D., Le colonie Italo Albanesi di Calabria, Napoli 1940, pp.
135- 141.
5.
Carfizzi
risulta tassato per 23 fuochi nel 1521, per 20 nel 1539, per 23 nel 1540, per
21 nel 1543, per 40 nel 1574, Pedio T., Un foculario del Regno di Napoli cit.,
p. 263; Maone P., Gli Albanesi a Cotronei,
Historica n. 4 /1972, p. 195.
6.
La dote che Antonia Suriano portò a Gio. Nicola Giuseppe De Filippis
fu di 4000 ducati, Cons. Coll.
Provv. Vol. 220, f56, ASN.
Ad Antonia Suriano
baronessa di Carfizzi fa riferimento un atto notarile scritto in Carfizzi il 26
agosto 1676. Nel 1674 a causa di molte bastonate il mastrogiurato
di Carfizzi, Giuseppe Basta, passò da questa all’altra vita e fu umanamente
seppellito. La baronessa del casale, la aristocratica crotonese
Antonia Suriano, ordina
subito di fare delle indagini e viene scoperto il colpevole. Carlo Puglano è così catturato e gettato in prigione su ordine
della corte baronale di Carfizzi. Dopo più di sette mesi di carcere duro per i
tormenti ed i patimenti subiti, muore ed è seppellito nella chiesa matrice di
Santa Venere.La madre del Puglano
protesta e fa istanza alla Regia Udienza di Cosenza, accusando della morte del
figlio la baronessa ed alcuni suoi vassalli, parenti alcuni del mastrogiurato (Fabrizio e Gio.
Maria Basta e Pietro Bisulca).Per l’insistenza e le dichiarazioni della
accusatrice si aprì allora un’inchiesta ma la baronessa corse subito ai ripari.
Essa fece convocare davanti al capitano di Carfizzi Federico Maria Zaccaro la madre dell’ucciso. Lucrezia Barci
ben presto fu costretta a ritrattare ed a scagionare sia la baronessa che i
suoi aiutanti, affermando che, essendosi informata da persone degne di fede,
non solo essi sono innocenti, anzi innocentissimi, ma
anche ogni altra persona, perché veramente la morte del figlio era avvenuta a
causa di una “infermità e come così a Dio piacque”, ANC. 333, 1676, 34, A.S.CZ.
7.
Maone P., Casabona feudale, Historica n. 5/6, 1964, pp. 202 sgg.;
Pellicano Castagna M., Storia dei feudi cit., pp.
6-7, 181-182.
8.
Rel. Lim. Umbriaticen.,
1598.
9.
Rel. Lim. Umbriaticen.,
1600.
10. Russo F., Regesto
(27046).
11. Russo F., Regesto ,
(29452), (38657).
12. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1618.
13. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1630.
14. Nei decreti emanati dal
vescovo Ricciulli era prescritto che "Nelle
chiese de Greci, non celebri nessuno sacerdote latino, se non in caso di
necessità, et in quel caso deve celebrare in pane azimo et non fermentato. I
latini, che si trovano ad habitare tra Greci, vadano
a confessarsi e communicarsi nella loro Parocchiale latina più prossima. Il sacerdote greco, non
consacri in pane azimo ma in fermentato e nel
medesimo fermentato communichi quelli, che vi sono
nel rito greco. La moglie latina osservi il suo rito, ancorchè
il marito sia greco. La moglie greca segua il rito suo, ancorchè
del marito, o almeno ogn'uno di loro osservi il suo
rito. Gli figli, che nascono da Padre greco e madre latina ad libitum d'essi figliuoli. Quelli che una volta tantum hanno
seguitato il rito latino, non puotono passare al
greco, ma sono tenuti per sempre a seguire il rito latino. Ma quelli che hanno
osservato il rito greco, potrà con licenza passare al rito latino". Rel. Lim. Umbriaticen.,
1634.
15. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1662, 1666.
16. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1669.
17. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1672.
18. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1678.
19. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1684, 1688.
20. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1700.
21. Barbagallo De Divitiis
M. R., Una fonte cit., p. 53.
22. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1700. 1724.
23. I vassalli del duca di
Carfizzi Scipione Moccia sono accusati di furto. Il
duca tramite i suoi erari raccoglieva il grano dalle sue terre di Carfizzi, Casabona e S. Nicola e lo faceva condurre nei suoi
magazzini di Crotone, da dove poi lo esportava a Napoli. Secondo la
testimonianza di alcuni "conduttori di grano" i vassalli non potevano
portar via il grano mentre veniva caricato per portarlo dalle aie a Crotone in
quanto vigilavano le guardie del barricello. Quel
poco che riuscivano a prendere, lo rubavano furtivamente di notte, Not. A. Varano, 2.XII, 1700, f. 11r.
24. Catasto Onciario Melissa, 1742, f. 331, ASN.
25. Maone P., I Cortese, feudatari
di Verzino e casale di Savelli,
Historica, n. 5, 1959, p. 152.
26. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1783.
27. Alfano G.M. Istorica descrizione cit., p.79.
28. Rel. Lim.
Umbriaticen., 1796.